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Decarbonizzazione: l’acciaio punta sul forno elettrico, ma preoccupano rottame ed energia

Decarbonizzazione: l’acciaio punta sul forno elettrico, ma preoccupano rottame ed energia

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Imballaggi in acciaio avviati al riciclo: secondo il Consorzio Ricrea l’Italia ha già raggiunto gli obiettivi europei al 2030.

 

La via per raggiungere la neutralità carbonica è costellata di insidie e ostacoli per l’acciaio: sta comportando una riconfigurazione dell’approvvigionamento, della qualità, dell’uso delle materie prime (rottame, minerali, calce, refrattari) e dei vettori energetici (gas naturale, idrogeno, carboni, elettricità).

 

È stato questo il tema al centro del convegno dal titolo “Acciaio: transizione ecologica tra materie prime, mercato e CBAM”, organizzato da Siderweb a Ecomondo in collaborazione con il Consorzio Ricrea e con il patrocinio di Fondazione per lo sviluppo sostenibile, che si è tenuto il 9 novembre.

 

L’industria siderurgica contribuisce a circa il 7% delle emissioni globali e al 5% alle emissioni europee di CO2. Di conseguenza, è considerata tra le prime industrie da decarbonizzare per rispettare il vincolo dell’Ue di riduzione del 55% di emissioni entro il 2030 rispetto al 1990, ma anche tra le “hard to abate” (difficili da riconvertire). L’altoforno produce circa 2,5 tonnellate di CO2 per tonnellata di acciaio sfornato; il forno elettrico ad arco alimentato con rottame emette 150 chilogrammi di CO2 per tonnellata di acciaio (850 chili se alimentato con spugna di ferro).


 

Le strategie di decarbonizzazione della produzione di acciaio sono due: quella parziale, che prevede la riduzione delle emissioni di COmigliorando l’efficienza degli altiforni, producendo ghisa senza carbon coke, utilizzando biomassa come riducente, catturando, stoccando e utilizzando la CO2 (CCS e CCU). C’è poi la decarbonizzazione piena, producendo acciaio con altoforno senza emissione di CO2 utilizzando l’idrogeno come fonte energetica, producendo acciaio con forno elettrico utilizzando rottami ferrosi e/preridotto (DRI) ottenuto fondendo il minerale di ferro con idrogeno verde anziché con combustibili fossili.

 

Sono due anche i principali grandi ostacoli: la necessità di quantità sensibilmente maggiori e costanti di elettricità generata da fonti rinnovabili e il bisogno di coprire la domanda globale crescente di rottami ferrosi.

 

«Già oggi i rottami ferrosi – ha spiegato nel proprio intervento di apertura Carlo Mapelli (nella foto), professore ordinario della Sezione materiali per applicazioni meccaniche del Dipartimento di Meccanica del Politecnico di Milano – non sono disponibili nella misura necessaria e questo aspetto sarebbe peggiorato da una crescita della domanda. Inoltre, si assiste a un degrado progressivo della loro qualità dal punto di vista chimico». Perciò si farà ricorso in modo massiccio al preridotto, ma «i nuovi processi di estrazione del ferro dai minerali – ha illustrato ancora Mapelli – dovranno essere svincolati da minerali di qualità elevata. I preriduttori funzionanti a gas naturale o a idrogeno presentano però, in questo senso, un significativo punto debole: molti produttori stanno puntando su di essi, ma il minerale per alimentarli rappresenta soltanto il 4% del minerale estratto a livello mondiale».

 

Quanto all’idrogeno usato in sostituzione del monossido di carbonio prodotto dalla combustione del coke, quello “verde” ottenuto dal consumo di acqua dolce attraverso l’operazione di elettrolisi dell’acqua risulta essere «pesantemente svantaggiato dal punto di vista energetico – secondo Mapelli -, in quanto implica il consumo di ben cinque kilowattora per ogni metro cubo di idrogeno prodotto. Più realistica potrebbe essere la possibilità di ottenere l’idrogeno attraverso i processi di scomposizione per pirolisi del gas naturale con formazione di idrogeno e carbonio solido, che consentono di non consumare risorse di acqua dolce e al termine dell’operazione permettono di avere a disposizione due importanti materie prime, la grafite da una parte e l’idrogeno dall’altra. In questo caso è chiaro aspettarsi, quindi, che il gas naturale rimarrà una risorsa strategica e determinante».

 

In questo contesto, l’industria dell’acciaio europea è chiamata a confrontarsi anche con «un nuovo dazio ambientale ufficialmente in vigore da ottobre», cioè il CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism).

 

Per i prossimi due anni, chi importa prodotti siderurgici da Paesi extra Ue dovrà compilare un’apposita relazione trimestrale per calcolare le emissioni di CO2 nell’atmosfera legate alle merci importate; dal 1° gennaio 2026 gli importatori saranno costretti ad acquistare dei certificati corrispondenti al numero di emissioni collegate alla produzione di tali merci. «È stato calcolato che l’introduzione di questo nuovo tributo dovrebbe aumentare il gettito a favore delle casse dell’Unione europea per una cifra che si aggirerà tra i 9 e i 14 miliardi di euro annui» ha detto l’avvocato Stefano Comisi dello studio legale Armella e Associati. Proprio dal 2026, poi, comincerà la fase di graduale eliminazione delle quote ETS gratuite (2026/34). «Sarà necessaria una maggiore consapevolezza da parte delle imprese europee importatrici dello stato degli impianti utilizzati dai fornitori, oltreché dei meccanismi di produzione – ha sottolineato Comisi -. Gli importatori, inoltre, dovranno verificare che le merci importate siano classificate correttamente a livello doganale per escludere di essere soggetti al CBAM. Particolare attenzione deve essere prestata ai programmi di formazione e consulenza aziendale per implementare i numerosi aggiornamenti: è consigliabile per le imprese avviare fin da subito un percorso, in fasi progressive, per assicurare la corretta gestione di questa importante novità».

 

Nel 2022 l’Italia ha già raggiunto e superato il target europeo al 2030 per il riciclo degli imballaggi in acciaio, fissato all’80% (418.091 tonnellate). I consumi totali sono calati, ma sono saliti la percentuale del materiale raccolto (+6%) e i volumi avviati al riciclo (+7%). «L’aver superato con diversi anni di anticipo la soglia dell’80%, siamo all’80,6% dell’immesso al consumo per esattezza, rappresenta un consolidamento dell’attività di sensibilizzazione svolta in questi anni. Negli anni, essa ci ha permesso di raggiungere con notevole anticipo gli obiettivi intermedi fissati via via dalla direttiva europea».